Gli eventi che l'11 settembre 2001 hanno drammaticamente marcato la storia degli Stati Uniti d'America hanno indubbiamente portato a una drastica evoluzione dell'intero assetto internazionale e regionale, scomponendo e ricomponendo alleanze e schieramenti, creando brusche cesure, rimettendo in discussione ancora una volta precarie stabilità-instabilità. E non vi è anche dubbio che l'Afghanistan è, ancora una volta, il centro di immensi giochi di potere: potere politico, potere economico, potere tout-court non soltanto locali o regionali. Del pari, non vi è anche dubbio che, ancora una volta, l'ideologico-religioso sopravviene a coprire, legittimare, sussurrare e ispirare establishments al governo e opposizioni. Certamente mobilita le masse, offre consensi popolari, rappresenta una formidabile forza anche di pressione politica regionale e internazionale, può creare stabilità, ma, soprattutto nel contingente, provoca pericolose instabilità in tutta l'ecumene islamica.
Le pagine che seguono intendono riprendere un discorso interrotto nel giugno 2000 (1) a proposito dell'Afghanistan e nel febbraio 2001 a proposito dell'Asia centrale e soffermarsi brevemente sui riflessi che l'evolversi della situazione centro-asiatica può avere sul Golfo, e viceversa. Si tratta di un quadro generale, ogni punto preso in considerazione è ovviamente suscettibile di micro-analisi. è ovvio altresì che gli eventi dell'11 settembre 2001 non consentono alcuna conclusione. Rappresentano una brusca sterzata in quello scenario di "evoluzione nella stabilità". Aprono un nuovo capitolo, che resta necessariamente interrotto. Si possono solo azzardare ipotesi e delineare nuovi possibili scenari di evoluzione alla luce di elementi quanto mai vaghi e spesso contraddittori.
Nel 1994, Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (seguiti a ruota dall'ormai dissolta Cecenia) riconoscevano de jure lo stato fondato dai Taliban in Afghanistan. Nel settembre 1996 cadeva Kabul e un anno dopo circa Mazar-e Sharif (caposaldo dei signori della guerra uzbeki). Il generale Dostam - dopo poco limpide rese e riprese - si rifugiava in Anatolia. La Coalizione delle Forze del Nord si arroccava nella vallata del Panjshir e controllava ancora poco più o poco meno del 10 % dell'intero territorio afgano.
Poiché il sostegno formale e militare del Pakistan - e relativi ritorni finanziari ed economici - sono stati presi in esame in altre sedi (2) , quanto segue vuole essere soltanto una riflessione sull'attualità analizzata alla luce di situazioni pregresse, possibili sviluppi e implicazioni legate alla presa di potere del generale Parviz Musharraf. Certamente, il Pakistan di Musharraf sta giocando un ruolo centrale - non soltanto regionale - dopo gli avvenimenti delle "Twin Towers".
L'11 settembre 2001 sembrò rimescolare ancora una volta le carte, scomponendo intese e creandone di nuove.
In realtà, le premesse già esistevano. Alcuni elementi nuovi - forse coincidenze, ma non necessariamente - davano segnali inquietanti; fra questi:
- l'assassinio di Mas‘ud, il mitico "leone del Panjshir", avvenuto all'inizio del settembre 2001;
- le crescenti tensioni all'interno del "clan" saudita e la sempre più palese opposizione interna da parte degli hijazeni.
Il primo evento riportava al centro di ogni analisi l'Asia centrale. L'improvvisa scomparsa di Mas‘ud ha privato la Coalizione del Nord del suo geniale leader militare, offrendo un'ottima opportunità al regime Taliban per riprendere le operazioni militari prima dell'inverno e conseguire infine la riunificazione territoriale dell'Afghanistan. Ben lungi dall'arrendersi, Rabbani e la Coalizione del Nord si misero subito in moto per rinsaldare vecchi legami e ottenere aiuti militari e appoggi diplomatici. Come si è detto, l'obiettivo non era quello di siglare la sopravvivenza dei "buoni" contro i "cattivi", bensì di pervenire a un'equa spartizione delle terre fertili per il papavero e relativi corridoi e vie di transito. Come si è già specificato, in entrambi i casi (Governo Rabbani e Amministrazione di Kabul) si è di fronte a "narco-governi", auto-finanziantisi, e, pertanto, autonomamente in grado di acquistare armi e "professionisti" della guerra. Secondo le stime dell'Università di Liverpool, il prezzo dell'oppio grezzo in Afghanistan all'inizio di ottobre 2001 continuava ad aggirarsi intorno alle £ 160 al chilo, ribasso dovuto a un raccolto particolarmente buono nel 2000-2001 (3) . Come si può facilmente evincere, le reti di interessi sono vastissime ed estremamente complesse, quanto complessi sono i percorsi delle ricchezze così accumulate (e relativa re-distribuzione e investimenti), resi ancora più evanescenti e fluidi dagli incredibili balzi in avanti delle tecnologie moderne dell'informatica e delle comunicazioni.
Con la morte di Mas‘ud, pertanto, i rapporti di forza sembravano ormai decisi e la crisi afgana sembrava ormai avviata a una sua ri-composizione nonostante la frenetica attività di Rabbani, il quale - facendo leva sia sulle divisioni che si cominciavano a verificare all'interno del regime di Kabul, sia sulla discrepanza di interessi degli antichi alleati - cercava di rimettere in gioco l'ex-principe dell'Afghanistan, Muhammad Zahir Shah, quasi novantenne e deposto nel 1973 e da allora in esilio a Roma. Del pari, apriva anche al generale Dostum, il discreditato e venale signore della guerra uzbeko, che nel 1997 aveva consegnato Mazar-e Sharif ai Taliban, lasciando sul terreno il proprio stesso fratello; consentiva all'altrettanto discreditato ex-governatore di Herat, Isma‘il Khan (ben custodito dagli iraniani) il prestigioso ruolo di leader delle armate della Coalizione del Nord. Di contro, l'infaticabile diplomazia iraniana, rimetteva ancora una volta in discussione ambizioni e carisma di un altro ben noto leader delle operazioni afgane, Gulboddin Hekmatiyar - anch'egli ben custodito in Iran. In altre parole, si apriva un ventaglio di nuove operazioni diplomatiche che potessero consentire una soluzione di accordo e compromesso in Afghanistan, con il consenso degli attori regionali e della comunità mondiale e restituissero alla regione (e al mondo tutto) stabilità e sicurezza.
Comunque sia, è una realtà che l'assassinio del "Leone del Panjshir" suscitasse sgomento e grande ansietà fra tutti i vari attori regionali e non.
Il secondo evento, ossia le sempre più evidenti tensioni all'interno dell'Arabia Saudita, suscitava ansietà non minore, denunciando apertamente la fragilità sistemica e strutturale di questa entità statuale enorme (per ricchezza e dimensioni territoriali) - aggregatasi intorno a un'autorità che traeva legittimazione da Dio (e dal Suo Libro sacro, ossia il Corano), governando non tanto sulla base e per mezzo di parametri istituzionali (artificialmente imposti e riluttantemente adottati), quanto sulla base del carisma personale del sovrano. E' la cultura del mondo islamico e della sua concezione del potere, di qualsiasi potere. E' una realtà a mio avviso inestirpabile, che si riflette pienamente in quasi tutti i regimi islamici (non soltanto in quello saudita) e che nelle attuali realtà statuali del Golfo ha una delle sue più perfette applicazioni pratiche. Le lotte per il potere all'interno dell'Arabia Saudita hanno implicato inevitabile destabilizzazione interna e "fuga" di uomini e capitali, nonostante pressioni dall'Occidente e avvicendamenti ai vertici del potere. La destabilizzazione all'interno del regime saudita ha certamente contribuito a ri-disegnare quelle reti - comunemente etichettate come "terroristiche internazionali" - rafforzando i legami centro-asiatici che, come si è detto, pre-esistevano. Se poi si arrivasse a un rovesciamento reale dell'attuale clan al potere, ne conseguirebbe una destabilizzazione generale: certamente destabilizzazione per tutta la regione, con inevitabili effetti domino in quelle regioni gravitanti geograficamente, economicamente e politicamente sul Golfo (inclusi Paesi non-islamici quali il Giappone, la Cina, l'Australia e la Nuova Zelanda). Destabilizzazione saudita implicherebbe pertanto gravissimi ricaschi anche per la stabilità e sicurezza dell'Occidente. Nonostante gli sforzi degli Stati Uniti, dopo la "guerra del Golfo" non fu possibile articolare un piano integrato di sicurezza regionale. Nonostante massicci investimenti in armi (anche sofisticatissime) e mezzi di difesa, questi "regni" hanno continuato ad acquistare preoccupandosi perlopiù della propria sicurezza interna e degli affari "di palazzo", legandosi viceversa - per la propria sopravvivenza e sicurezza esterni - al potere e alla forza militare dell'Occidente o, più precisamente, degli Stati Uniti, dopo la fine della guerra fredda e la disintegrazione istituzionale e militare dell'altro "polo" di riferimento, ossia l'Unione sovietica.
Non solo. Val la pena - a questo punto - di attualizzare l'analisi circa le radici di queste nuove opposizioni. Il caos seguito al vuoto di potere creato dalla fine del bi-polarismo denunciava apertamente l'impreparazione di talune leaderships islamiche di fronte alla nuova realtà dei tempi, impreparazione soprattutto sul piano politico-istituzionale. Come noto e documentato, in questo vuoto di potere istituzionale, gruppi militanti ebbero così modo di riorganizzarsi sfruttando al massimo le infinite possibilità offerte dalla rivoluzione informatica e dai media, nonché la forza proveniente da nuove fonti di finanziamento. Dietro alla follia apparente di taluni gesti (si vedano i casi Egitto e Giordania, ad esempio, oppure gli attentati e le guerre civili che insanguinavano lo stesso "Territorio dell'Islam" in Algeria e in Afghanistan), nelle nuove dinamiche di violenza si cominciò a leggere una spiegazione razionale: lo strutturarsi di nuove fasce d'opposizione interna, le quali attingevano per la propria organizzazione a risorse finanziarie proprie. Materiali sequestrati dai vari servizi di sicurezza e studi ben documentati hanno potuto comprovare che - per lo più - si tratta di fasce di opposizione che drenano i propri membri da quegli strati sociali della cosiddetta media-buona borghesia delle professioni (ingegneri, medici, architetti, avvocati, insegnanti, fisici, funzionari et similia) e del commercio, di fatto esclusi dal potere politico.
Si tratta di opposizioni numericamente ristrette, abbienti economicamente, colte quanto basta per plasmare un ideologico di forte presa sulle masse dei diseredati - ancora troppo numerosi in tutto l'arco dell'ecumene islamica.
Finita l'epoca del bi-polarismo, l'Occidente (sia ex-sovietico che europeo e filiazioni americane) ha continuato a "pagare" la propria sicurezza in termini di stabilità regionale e accesso alle fonti energetiche (o ad altre ricchezze). Impegnato in una ri-strutturazione territoriale, politico-istituzionale, economica e sociale, nella evanescenza delle Nazioni Unite, l'Occidente ha preferito cristallizzare lo status quo in determinate aree - costruendo artificiosi quanto porosi "cordoni sanitari" nei confronti di stati cosiddetti "nemici", e consolidando in altri precedenti scelte di fondo. Nei regni del Golfo e regioni gravitanti, questa scelta ha portato a concentrare il potere politico nell'ambito di poche famiglie e relativi establishments, il più delle volte disattendendo ogni parametro di giustizia sociale ed economica, democrazia e diritti umani; si sono così ricompattate grosse sacche di corruzione interna, che hanno ricreato enormi gap e sperequazioni sociali, economiche e politiche, le quali hanno determinato a loro volta profondi scollamenti fra élites al potere e altre fasce sociali - gruppi colti e organizzati, e masse per lo più illetterate, misere e affamate. L'ideologico religioso è così tornato a fornire uno strumento nelle mani di pochi per mobilitare la base e il consenso, una vera e propria arma di lotta politica. Il cuore del dibattito è sempre il medesimo: tradizione islamica vis-à-vis sviluppo economico-sociale, ossia come conciliare il nuovo ordine mondiale con una tradizione inalienabile e resa ancora più cogente dal suo discendere dalla rivelazione divina. La realtà della lotta, il target finale è sempre il medesimo, la destabilizzazione delle élites al potere e il loro rovesciamento. L'analisi degli elementi disponibili relativi a queste nuove reti d'opposizione consente di individuare una evoluzione rispetto ai gruppi di "jihad" ancora attivi dopo la fine della guerra fredda: sono diversi i militanti, le tattiche e strategie d'azione, e anche gli obiettivi da conseguire.
Per quanto riguarda gli obiettivi, generalmente (anche se non sempre o non soltanto) non si tratta più di una lotta per l'accesso alle fonti del potere economico, come negli anni dell'immediato post-bipolarismo; ormai si tratta di una lotta per l'accesso al potere politico vero e proprio.
è una lotta per il potere politico a livello ancora di élite, fra forze trasversali che già dispongono di cospicue risorse economiche e il potere a queste correlato.
Andando ancora più a fondo nell'analisi di questo fenomeno - decisamente recente e riconducibile agli ultimissimi anni dello scorso millennio (4) - grosso modo agli anni successivi al 1995-1996 - se ne ricava un quadro nuovo.
1. L'incredibile balzo in avanti delle tecnologie dell'informatica e l'annullamento delle distanze ha senz'altro cambiato le connotazioni di queste lotte per il potere. Le opposizioni sono perfettamente in grado di padroneggiare gli strumenti tecnologici della modernità e di controllarne l'impiego per il conseguimento dei propri obiettivi. Il nucleare in misura minore, ma le armi chimiche e la bio-tecnologia sono non solo rischi, bensì minacce reali e realistiche. Strategie e tattiche sono decisamente mutate.
2. Non è sostanzialmente cambiato l'ideologico: per l'Islam resta - fondamento di ogni strategia - il Corano, né cambiano ancora sostanzialmente i parametri interpretativi (5) . Cambiano nella sostanza le organizzazioni e i mezzi di comunicazione: dal pio e ascetico tabliq - come caso isolato di propagazione - a organizzazioni pluri-cellulari che strumentalizzano (oltre al pio tabliq) i mezzi modernissimi e più avanzati dell'informatica.
3. I legami inter-etnici e/o inter-tribali e/o clanico-familiari hanno ancora un loro ruolo; si tratta tuttavia di un ruolo marginale, non sostanziale. Ciò può ricondursi in parte al proliferare di nuovi filoni ideologici e al risveglio di antiche "filosofie" (6) e, in larga misura, alle "non distanze" che introducendo nuove realtà introducono anche nuove concezioni di "solidarietà". Sul legame parentale prevale - all'interno delle opposizioni - il legame della solidarietà di appartenenza a un gruppo o a una confraternita. Ciò comporta mobilità, trasversalità e trans-nazionalità. Ne conseguono fluidità, evanescenza fisica, rapidità nei contatti, nell'informazione e nelle comunicazioni, consistenti accumuli finanziari legati a grande mobilità di capitali in stretto rapporto alla riorganizzazione dell'intero sistema finanziario mondiale (globalizzazione, new-economy ecc.).
è senza dubbio una situazione di disordine che si è venuta allargando a macchia d'olio dall'Algeria all'Indonesia e alle Filippine, dal mondo balcanico-danubiano all'Asia centrale all'Africa "nera". L'ordine che regna - apparente - a livello di establishment al potere non deve far velo alle insoddisfazioni che esistono e si sono sempre più venute aggravando e organizzando.
E' un disordine che ha in comune un elemento: l'Islam.
è una situazione di disordine che ha portato a sempre più numerose ondate di immigrazioni sul territorio dell'Occidente, a una incredibile circolazione di ricchezze "illecite" e ha creato nuove reti di contatti, obblighi, doveri, solidarietà.
E' un disordine che ha in comune un altro elemento: la miseria fugge dal territorio dell'Islam, dove dominano (non senza contrasti anche al proprio interno) le Famiglie del potere, un potere che ormai si regge esclusivamente sulle "solidarietà" dell'Occidente. E l'Occidente - oggi e quasi ovunque in questa vastissima fascia territoriale-culturale - è innanzi tutto il potere e la forza economica e militare degli Stati Uniti.
E' un disordine che ha in comune un passato fatto di opposizioni e militanze all'insegna dei valori islamici di giustizia sociale ed economica: i ben noti gruppi di jihad, filiazioni più o meno legittime delle grandi case madri del FIS, dell'Associazione dei Fratelli Musulmani, della Jami‘at-i Islam, ecc.. Questi gruppi hanno colpito, hanno arrecato morte e vittime in gran numero; Sadat prima e Mubarak successivamente, la corona giordana, le stesse case regnanti nel Kuwait, nel Qatar, in Arabia Saudita e altrove hanno visto a grave rischio la loro supremazia politica. E poi, le élites al potere si sono riorganizzate, il più delle volte su pressione dell'Occidente e in collaborazione con questo.
Ricorrendo a mezzi drastici quanto spregiudicati, esse sono riuscite a mantenersi al potere. In Egitto, le squadre speciali hanno avuto il sopravvento su questi gruppi di jihad; gli esponenti di queste organizzazioni - laddove non sono stati massacrati o imprigionati - divenuti fuggiaschi, sono stati costretti a ripiegare intorno agli anni ‘96-'97 verso altri teatri di lotta che li hanno ospitati e verso altre strutture che li hanno finanziati - fra queste la al-Qaida (le vicende palestinesi sono - in parte - un caso a sé). L'ideologico islamico conferiva loro universalità ed extra-territorialità, legittimandone l'ospitalità fino a Peshawar, a Kabul e all'Indonesia; nuove fonti di ricchezza hanno consentito loro, con l'ospitalità, la riorganizzazione di militanze e la pubblicazione di opuscoli e fogli di giornale (7) . Alle spalle, essi si sono però lasciati delle forze nuove, una generazione allevata nella tecnologia più sofisticata della modernità, una modernità attinta dall'Occidente, una modernità che - alle soglie del terzo millennio - è l'emblema del potere incontrastato degli Stati Uniti.
L'11 settembre ha colpito i simboli di questo potere. E questo rientra nelle strategie di lotta dell'Islam (8) ; è nuovo il fatto che questi simboli si trovassero sullo stesso territorio statunitense e ne fossero l'emblema supremo: quello che, in termini coranici, si può definire come "Il Territorio della Guerra" (Dar al-Harb).
Si tratta indubbiamente di una strategia di lotta nuova, che apre un capitolo nuovo e moderno dell'uso della forza; esce dai parametri tradizionali; colpisce nell'ombra, veloce, efficiente e puntuale; spaventa per la sua inafferrabilità, intimidisce e soggioga l'opinione pubblica mondiale; certamente destabilizza; inevitabilmente induce a rivedere le tradizionali concezioni sui rischi e le minacce e a ripensare le strutture di prevenzione, e sicurezza individuale e collettiva. Anche i tecnici del mestiere non ritengono che gli attacchi dell'11 settembre 2001 siano riconducibili agli episodi "kamikaze" della seconda intifada palestinese. E qui, il grande interrogativo: "chi"? "perché"?
Terrorismo internazionale, criminalità organizzata, narcotraffico, radicalismo islamico, scontro di civiltà ecc. ecc.: i media hanno immediatamente sollevato un polverone, che affascina e ipnotizza il pubblico, suscita polemiche, accende gli animi in tutto il mondo, offusca la lucidità, svia un'analisi obiettiva, induce a valutazioni da "marketing".
Senza dati obiettivi e realistici, si possono pertanto azzardare soltanto ipotesi. La guerra fredda appartiene alla storia. Non sembra altresì che la posta in gioco degli attentati dell'11 settembre sia il dominio mondiale (fantascienza!) o il controllo di determinati mercati o fonti di ricchezza (Afghanistan? Asia Centrale? Golfo?). Scendendo a realtà più prosaiche, si può tuttavia percepire un comune denominatore al di là della scenografia delle comunicazioni. Colpendo i simboli del potere dell'Occidente nella sua superpotenza, non vi è dubbio che sono state colpite anche tutte quelle leaderships che si proclamano islamiche legate all'Occidente e sorrette al potere dalla sua forza politica, militare ed economica. Sono la maggioranza, ad eccezione di pochi "cattivi" (l'Iraq, ad esempio, la R.I. dell'Iran e il Pakistan - che però parrebbe ravveduto).
E' una constatazione sorretta dai fatti, che abbraccia e comprende in sé molti paesi del Golfo, la Giordania, l'Egitto, la stessa Libia, la Tunisia, l'Algeria, ecc.. Anche la Turchia non è rimasta immune al fascino dell'orrido. Tutte queste leaderships, dopo l'11 settembre, si sono trovate in grande affanno, fra fetwà contrastanti, dimostrazioni di piazza, attentati vari. I Paesi del Golfo tengono un profilo bassissimo - quanto a "grande alleanza anti-Taliban". Sono interessantissimi i dibattiti all'interno della stampa in lingua araba e gli studi dei vari Centri di Studi Strategici (dal Cairo ad Abu Dhabi al Kuweit). Per di più, stanno emergendo delle realtà che, alla luce di quanto sopra detto, non sorprendono: a combattere e morire non sono i diseredati, i miseri e gli affamati; sono esponenti benestanti di una società istruita, che non partecipa al potere politico. Il che riporta all'analisi sistemico-strutturale di molte realtà statuali "anche" islamiche, non escludendo che fra gli oppositori vi siano anche membri della stessa Famiglia al potere, in un ricorrere di elementi insiti nella cultura locale, ossia le tradizionali "lotte di palazzo".
E, quindi, il fattore Islam; abilmente orchestrato esso ha sempre avuto facile presa su una popolazione affamata e diseredata, stanca di soprusi, guerre intestine, siccità e inondazioni, carestie, epidemie. Nella presente contingenza, questa massa assolve al ruolo di "coro" di una tragedia, che ha come protagonista il potere politico. E' indubbiamente una massa potenzialmente destabilizzante, che comunque erode le basi del "consenso" e discredita.
E qui il pensiero non può non andare ai regimi arabi del Golfo e al colosso saudita, alle sue "stratificazioni" nell'opposizione. Come si è analizzato sopra, si tratta in quest'ultimo caso di: 1) una opposizione all'interno dello stesso clan degli Al Sa‘ud, che si potrebbe definire lotta di palazzo; 2) una opposizione all'interno del clan saudita al potere, di stampo religioso-rigorista hanbalita fortemente critico nei confronti della politica di sostegno americana (9) ; 3) una opposizione che affonda le radici nel ricco milieu hijiazeno - componente ancora quasi totalmente esclusa dal potere politico. E l'analisi dei diversi membri che convergono in questa opposizione non può non richiamare forme di "solidarietà" che escono dal tradizionale e abbracciano una trasversalità anche transnazionale (sempre intendendosi con quest'ultimo termine una identità etnico-culturale e tribale).
Questa orchestrazione e strumentalizzazione mondiale del jihad non si identifica con le strategie impiegate fino a pochi anni fa dagli ormai sfrangiati gruppi della "jihad" egiziana o algerina; nel lessico non ricorrono quelle espressioni e quei topoi tipici di quell'ideologico. E ciò crea delle perplessità, inducendo a guardare in direzioni diverse. Di fatto, come si è già detto, in questi ultimissimi anni si è venuta costituendo una nuova rete di solidarietà, alimentata trasversalmente, la quale agisce a livello sia popolare che superiore e trae la sua forza ideologica da rigorose correnti di pensiero islamiche, prime fra tutte la Salafiyyah - con le sue radici arabo-saudite, e le sue diramazioni anche asiatiche -, e la Naqshbandiyyah - con le sue radici centroasiatiche e le sue diramazioni "cecene". Droga e ricchezze "illecite" finanziano. Non si tratta di novità, e i vari servizi di sicurezza giordano, saudita (?), egiziano, russo, iraniano, indiano ecc. hanno prodotto una ricca documentazione sull'irradiarsi di questi due filoni e le potenzialità micidiali.
Nel contingente, di fronte all'imbarazzo dei paesi arabi, la R.I. dell'Iran sta svolgendo un ruolo molto attivo, ossia sta "mercanteggiando" il proprio appoggio (la propria solidarietà è stata data immediatamente) sottolineando anche ufficialmente: 1) le proprie priorità (Golfo - Caucaso); 2) la propria posizione anti-regime Taliban (narco-traffico, profughi e rifugiati afgani); 3) la necessità di una soluzione che abbia luogo all'interno di fòri internazionali e tenendo presente gli interessi di sicurezza di tutti gli attori anche regionali; 4) la revisione delle "quarantene". Come "merci di scambio", non vanno dimenticati: i files sulla sicurezza iraniani; gli "ostaggi" che Tehran ha in mano (da Isma‘il Khan a Hekmatiyar); la larga esperienza diplomatica per un compromesso centroasiatico, svolta ininterrottamente dagli anni 1990 (regime Rafsanjani). L'intellighentia iraniana (base anche del consenso a Khatemi) si è largamente mobilitata per plasmare pragmaticamente un ideologico che legittimi l
'appoggio di Teheran all'Occidente (leggi Stati Uniti).
In questo contesto, quale ruolo hanno Afghanistan e Pakistan?
Non vi è dubbio che Osama bin Laden sia uno dei capi carismatici di questo Islam moderno-contemporaneo, membro della casa regnante saudita, figura di mistico e abile parlatore (10) . Le prove a suo carico sono state prodotte dall'Occidente in gran numero. Egli ha negato e ha replicato con un sermone che è risuonato nel mondo come un appello di guerra (11) . Parole coraniche, espressioni coraniche, un Islam rigoroso e attento, che non potrà non continuare a suscitare echi diversi e imbarazzi fra i vari regimi islamici. L'Afghanistan continua ad avere una sua centralità strategica nel quadro regionale e nel più ampio contesto della globalità; e questo è un fatto di cui si è già discusso. E' anche una realtà che può rientrare in un più ampio discorso di geo-politica euro-asiatica e mondiale - ma sarebbe un discorso a sé; non vi è comunque dubbio che gli equilibri e i rapporti di forza cambieranno sostanzialmente con la presenza militare nella regione dell'Inner Asia. La Coalizione del Nord - dopo la decisione interventistica di Washington -ha capovolto le sue posizioni da debolezza in forza, e, al momento, è la forza militare di riconquista. Non sembrano esservi altre alternative. Non va tuttavia trascurato che questa non rappresenta e non è rappresentativa delle diverse etnie e gruppi culturali che hanno storicamente costituito la base sociale dell'Afghanistan; essa non si può neppure razionalmente identificare con il partito dei buoni. Il progetto di tornare alla Loya Girga è forse il più credibile, ma ancora prematuro; è stato più volte esperito sul piano diplomatico dalla R.I. dell'Iran, con successi teorici ma senza seguiti concreti (12) ; le lacerazioni sono troppo recenti per una simile ricucitura, che richiederebbe trattative pazienti, sensibilità e raffinata conoscenza degli animi etnico-culturali. La ventilata rimessa in gioco di Gulboddin Hekmatiyar non dovrebbe far dimenticare che fu proprio questo personaggio a far esplodere le divisioni all'interno della coalizione anti-sovietica. Il rientro del principe Muhammad Zahir Shah è un mito, una splendida resurrezione, ma - a parte l'età avanzata del principe - dietro di lui, o dopo di lui, tornerebbero certamente al pettine tutti quei nodi che costituiscono da anni la realtà dell'Afghanistan. Rispolverare il generale Dostum, come si è detto, non rappresenterebbe un'alternativa valida e neppure realistica; dietro questo irrequieto personaggio uzbeko si celano: concreti interessi legati al potere e al narco-traffico, inaffidabilità e venalità, e, soprattutto, rappresentando una minoranza per di più allogena, non gode di nessun consenso a livello di popolazione afgana in generale. Quanto ai Taliban, sul piano ideologico-religioso essi avrebbero ben potuto incarnare l'animus afgano; e questo spiega il consenso iniziale; poi - per una serie di motivi già analizzati in altri studi - l'operazione è fallita incancrenendosi in una guerra "di religione" e di droga. Oggi tuttavia, bene o male, rappresentano i 9/10 del paese, una realtà statistica demografica di cui non si può non tenere conto se si vuole portare avanti un discorso di rappresentatività.
E ciò riconduce al Pakistan -ospite principale di siffatta etnia - e, nel contingente, a Parviz Musharraf. Sul piano ideologico-religioso, il regime Taliban non ha molto da perdere da un conflitto. Sul piano interno e istituzionale-politico, si cominciavano già ad avvertire i segni di gravi fratture e di profonde insoddisfazioni fra la popolazione civile. Sul piano militare, esso era già in difficoltà. Sul piano diplomatico, il suo tradizionale amico-alleato Pakistan aveva già cominciato ad esercitare pressioni per una svolta (i colloqui di Dushanbeh dell'ottobre 2000, da cui ha preso le mosse questa lunga riflessione). Islamabad aveva spianato il terreno a una sterzata di politica estera già da un anno (13) . E questo è un punto da non sottovalutare. I rimpasti dell'ottobre 2001 al vertice dell'Isi e dello stato maggiore pakistano sembrano quasi potersi leggere come la coerente e razionale conclusione di una linea politica pre-determinata, tesa a prendere le distanze dall'Islam militante più radicale (movimenti tabliqi, JUI e altri gruppi legati alla scuola di Deoband, ecc.), che avrebbe portato soltanto a uno smembramento del Pakistan, e pervenire prima o poi a una soluzione negoziale con l'India circa il Kashmir (occupato o liberato che si voglia) - come emerge dai colloqui del luglio 2001; si è trattato di una scelta politica certamente accelerata dagli eventi successivi all'11 settembre 2001 e dalla decisione degli Stati Uniti di operare un intervento militare in Afghanistan. Dovendosi schierare, il Pakistan non ha esitato. Resta infine il piano economico-finanziario: il narco-traffico è fonte di finanziamento anche per terrorismo e criminalità e stava arrecando destabilizzazione e insicurezza in più di un teatro; distruggere con operazioni mirate la fonte di questa ricchezza rappresenterebbe un duro colpo per entrambi i "narco-governi" (Kabul e Coalizione del Nord) e fungerebbe da deterrente per altri governi consimili. Secondo la prof.ssa Hamilton Fazey, le scorte di droghe dall'Afghanistan (eroina/oppio e, in seconda misura, marijuana e cannabis) sono cospicue, per cui il mercato non dovrebbe risentirne (diversamente, sarebbe da prevedersi un aumento della micro-criminalità); citando da un funzionario del UNDCP (United Nations Drug Control and Crime Prevention), Vladimir Fenopetov, "drugs are like water. They always find the path of least resistance". E - comunque - le leggi di questo mercato dopo il settembre 2001 dipendono ancora una volta dalle scelte militari-strategiche degli Stati Uniti e alleati nei confronti dell'Afghanistan.
Tornando al Pakistan, il grosso interrogativo è costituito dalla tenuta strutturale di questo paese artificiale, coacervo di etnie e culture fra loro profondamente diverse.
All'inizio di questo studio si è parlato di una evoluzione della crisi verso la stabilità. Dopo gli eventi dell'11 settembre, si potrebbe tratteggiare uno scenario di evoluzione della crisi attraverso l'instabilità. Molto - o meglio, tutto - dipende ancora una volta essenzialmente dalla posizione degli Stati Uniti e dagli obiettivi reali che l'Amministrazione Bush si è prefissi, al di là dell'immagine nei confronti di una opinione pubblica interna. Se la grande struttura-esercito pakistana regge, regge anche il Pakistan. Il discorso di Musharraf alla popolazione dopo la decisione di apertura agli Stati Uniti ha avuto una forte presa e larghissimi consensi fra le forze reali di sostegno. Non sono mancate le dimostrazioni contro, ma queste hanno avuto luogo in regioni cronicamente "malate", come Karachi, Peshawar e Quetta - le ultime due particolarmente coinvolte in qualsiasi operazione ai confini con l'Afghanistan -, Jalalabad. Gli interventi economici e finanziari degli Stati Uniti e delle organizzazioni internazionali - facendo leva sulla ben nota bramosia della popolazione locale - dovrebbero consentire a Islamabad i tempi necessari a superare la crisi, ricompattare il paese, riprendere il pieno controllo di Quetta e Peshawar - regioni di frontiera con l'Afghanistan, di centralità strategica per operazioni militari, estremamente sensibili e profondamente disturbate per affinità etnico-culturali e infiltrazioni religioso-militanti -, riorganizzare il paese dando un qualche seguito all'impegno di un nuovo ordine sociale ed economico, impegno con il quale Parviz Musharraf aveva legittimato la sua presa di potere nell'ottobre 1999. Ciò naturalmente implica: controllo delle opposizioni religiose - alcune delle quali di convinta militanza e già "al sicuro"; oculatezza nella distribuzione del nuovo flusso di ricchezza; fermezza nelle riforme avviate; capacità politica e una base rinnovata di consenso popolare; soluzione del "problema Kashmir" - nei confronti del quale Nuova Delhi e i suoi servizi di sicurezza stanno diventando sempre più allarmati e iper-sensibili (14) . Il Pakistan deve operare un'opzione fra queste due proiezioni (Afghanistan e Kashmir) - ma anche questo, dopo l'11 settembre 2001, è divenuto un capitolo a parte. Se viceversa il Pakistan non reggesse, si potrebbe allora delineare uno scenario del tipo "balcanizzazione"; gli effetti domino su paesi e regioni circostanti sarebbero inevitabili e le ricadute anche per la sicurezza dell'Occidente tutto sarebbero gravissime.
Alla fine, di fronte a una comunità mondiale confusa, spaventata e annichilita continua ad ergersi la rabbia degli Stati Uniti e la sua indiscutibile potenza politica, militare ed economico-finanziaria.
|
|